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Salute dentro e oltre l’emergenza

Siamo ormai giuntǝ all’ottavo mese di pandemia nel nostro Paese. Nonostante il tempo trascorso – e le previsioni circa un nuovo aumento autunnale della linea dei contagi, di cui il governo è sempre stato a conoscenza – abbiamo constatato che la gestione dell’“emergenza” pandemica non è mai realmente mutata rispetto alla prima fase.

Infatti, con l’arrivo dell’autunno, abbiamo assistito nuovamente a un susseguirsi di decreti presidenziali temporanei, continuamente sostituiti a distanza di pochi giorni da decreti successivi e via via più restringenti delle libertà dellǝ cittadinǝ, fino ad arrivare, come sappiamo, alla suddivisione dell’Italia in 3 fasce di rischio diversificate su base regionale.

La nostra analisi parte dalla constatazione che le riaperture estive, come le chiusure parziali di queste settimane, abbiano diffuso il messaggio che il comportamento responsabile di ciascunǝ sarebbe stato sufficiente per evitare una seconda ondata. Oggi, con la curva dei contagi che da settimane è in forte salita e con un lockdown ormai attuato almeno in alcune regioni, risulta sempre più evidente che questa prospettiva sia semplicemente insostenibile: in parole semplici, non basta evitare gli aperitivi per fermare una pandemia.

Quel che ci sembra evidente è che l’applicazione delle stesse misure restrittive che abbiamo visto adottare nella prima fase manifesti in realtà una mal gestione della crisi pandemica da parte del nostro governo, dal momento che tutti gli interventi da esso effettuati sono stati tesi a tamponare le conseguenze – per quanto ormai possibile – e non a salvaguardare realmente la salute dellǝ cittadinǝ.

In tutti questi mesi abbiamo infatti assistito a una serie di investimenti che riteniamo sbagliati (si pensi, ad esempio, al proseguimento dei lavori sulla linea ad alta velocità Torino-Lione, oppure agli oltre 26 miliardi investiti in spese militari solo nel 2020)[1] soprattutto alla luce di un mancato piano di potenziamento del sistema sanitario.

Già a inizio novembre, infatti, i posti in terapia intensiva si stanno esaurendo, essendo stati aumentati solo di poco rispetto a prima dell’estate e – ricordiamo – purtroppo non destinati esclusivamente a malatǝ di Covid. Continuano a mancare circa 53.000 tra medici e infermierǝ in tutta Italia, e quellǝ stessǝ che nei mesi precedenti sono statǝ appellatǝ come “eroi in corsia” molto spesso non hanno visto rinnovarsi i contratti stipulati durante la prima ondata.[2] Ai medici di base è stata delegata in toto la gestione dellǝ potenziali malatǝ di Covid (per i quali, inoltre, continua ad essere difficoltoso l’accesso ai tamponi).

Come collettivo di Ecologia politica vogliamo affermare che le cause della nascita e del dilagare della pandemia non vanno ricercate nei comportamenti dellǝ singolǝ (come, ad esempio, lascia intendere la retorica “anti-movida” su cui i mass media si sono tanto concentrati) quanto nel modello di sviluppo che informa la nostra società, il suo sistema produttivo. Sentiamo, oltretutto, la necessità di sottolineare ed enfatizzare il carattere inseparabilmente politico, sociale ed ecologico del fenomeno pandemico che stiamo vivendo. Il confronto su queste tematiche, che solo permetterebbe una presa di coscienza diffusa e un posizionamento politico netto, è per noi primario, sebbene sia però in questo momento gravemente ostacolato da chi si occupa della gestione della pandemia.

Infatti, tra le conseguenze più gravi che questa gestione della pandemia ha portato con sé non possiamo che condannare la soppressione di ogni spazio di dialogo e di produzione di controcultura; ne è sicuramente un esempio la chiusura, all’interno del Campus Luigi Einaudi di Torino, dell’aula autogestita C1 per mano della Questura di Torino.

Più in generale, abbiamo assistito ad una chiusura davvero precoce degli spazi di socialità e di dibattito rispetto ad altre attività. I decreti ministeriali che hanno chiuso scuole, università, cinema, teatri, palestre, ristoranti e bar hanno infatti lasciato aperti quanto più possibili luoghi di lavoro. Si ritiene più sicuro andare in fabbrica a produrre merci che impatteranno in maniera irreversibile gli ecosistemi, piuttosto che lasciare fruibili quei luoghi di cultura e ricerca che possono essere una vera risposta alla pandemia in corso.

Facendo un passo indietro, è allora chiaro come all’origine delle decisioni governative ci sia principalmente il tentativo di salvaguardare le necessità del libero mercato, inserendosi perfettamente all’interno della logica del capitalismo neoliberale. Non vogliamo certamente appoggiare idee di stampo negazionista, ma non possiamo neanche accettare in maniera acritica che le nostre città si trasformino in veri e propri dormitori per lavoratrici e lavoratori che hanno il permesso di vivere gli spazi pubblici unicamente sotto la giustificazione del lavoro. Le reali priorità del governo si sono rese palesi ancora negli ultimi provvedimenti ministeriali, che se da un lato hanno provveduto immediatamente alla richiusura di ambienti di istruzione e cultura, hanno però, dall’altro lato, garantito il proseguimento della produzione, in tutti i settori lavorativi possibili. Emblematico in tal senso il fatto che non sembra ci sia stata la preoccupazione di potenziare il sistema dei trasporti per garantire a coloro che non godono dei “privilegi” dello smart working di recarsi sul luogo di lavoro in totale sicurezza.

Salute da un punto di vista ecologico

Vorremmo partire da una riflessione intorno al concetto cardine delle politiche governative e che crediamo possa e debba guidare anche quelle di dissenso: quello di salute.

Alla luce di quanto sostenuto anche in precedenza, è chiaro come nel nostro sistema politico-economico il concetto di salute finisca spesso per trovarsi in contraddizione con il principio cardine dell’organizzazione sociale, ossia il profitto.

Già nella prima ondata pandemica, quella della scorsa primavera, abbiamo visto come molti settori produttivi ritenuti “essenziali” non siano stati chiusi, divenendo poi focolai di contagio in quanto raramente rispettosi degli standard di prevenzione. Il fatto che il governo abbia ceduto alle spinte di Confindustria piuttosto che a quelle di medici e virologi dovrebbe essere già sotto gli occhi di tutti e dimostra in maniera chiara come la salvaguardia degli interessi di imprenditori e aziende sia stata prioritaria rispetto alla salvaguardia della salute stessa dellǝ cittadinǝ.

Riconoscere l’asse governo-Confindustria come agente fondamentale delle politiche di pandemia è centrale per cogliere le conseguenze sociali delle scelte governative: la gestione della pandemia ha fin da subito contribuito ad inasprire le disuguaglianze sociali, concorrendo all’aumento del divario tra ricchi e poveri. La crisi che tutt’oggi viene narrata come “emergenza pandemica” non può essere affrontata senza la lente delle disuguaglianze sociali ed economiche; per essere più precisi, la lente delle disuguaglianze di classe.

Ci sembra chiaro infatti che le conseguenze della mala gestione della pandemia non siano uguali per tuttǝ, e che la retorica del “siamo tutti sulla stessa barca”, diffusa dal governo attraverso i maggiori mass media, sia inappropriata, quando non deliberatamente ipocrita. Basti pensare a tuttǝ coloro che hanno perso il lavoro, perché precarǝ o a nero, non riuscendo più a pagare il canone di affitto; o a coloro che si sono trovatǝ costrettǝ a vivere la quarantena in spazi ristretti, dovendo, come se non bastasse, spesso conciliare smart working e gestione dei figli. Ancora, si pensi alla tanto discussa “didattica a distanza”, adottata senza tener conto, ad esempio, dell’impossibilità per alcunǝ studenti e studentesse di accedere a un PC o a una connessione stabile.

Con ciò non si vuole semplificare il problema della tenuta economica; osservando la gestione della pandemia, però, risulta evidente che essa abbia salvaguardato solamente gli interessi delle categorie sociali più abbienti e produttive. Ciò ha portato non solo alla messa in secondo piano della tutela della salute di moltǝ lavoratori e lavoratrici, ma sta soprattutto generando delle gravi conseguenze sociali: povertà diffusa, l’aggravarsi delle disuguaglianze e, di conseguenza, dei rancori e dei conflitti per accaparrarsi fette sempre più esigue di una torta ormai in gran parte in mano a pochissimi.

Oltre all’analisi della contraddizione tra salute ed economia, come gruppo di Ecologia politica riteniamo sia fondamentale provare a fare un passo ulteriore: pensare alla “salute” come ad un fatto complesso ed ecologico, che intreccia l’aspetto fisiologico a quello sociale, psicologico e al rapporto con l’ambiente. L’interazione tra il mondo biofisico e la sfera dell’umano ha infatti raggiunto una complessità tale che pensare al sociale e all’ecologico come a realtà separate e sconnesse sarebbe non solo riduttivo, ma fallace. Riteniamo che pensare alla salute come frutto di quest’intreccio complesso permetta di sostenere che essa fosse gravemente minacciata anche prima della pandemia. Tuttavia, l’attenzione che sulla salute si pone oggi, e in modo alquanto ossessivo, sembra tenere in conto solo dell’aspetto strettamente sanitario, nascondendo gli ovvi e decisivi risvolti politici, sociali ed ecologici del problema.

La devastazione ambientale, lo sfruttamento sfrenato di risorse, le dinamiche che regolano le modalità attraverso cui la specie umana produce e ri-produce la propria esistenza nel mondo hanno infatti portato a un disequilibrio ecosistemico non più sostenibile per tutte le specie che abitano il pianeta. Questo disequilibrio ha degli effetti devastanti sulla salute della popolazione mondiale. Si pensi per esempio all’inquinamento e alle malattie ad esso legate, all’alienazione psicologica e agli stili di vita malsani favoriti dalle città ad alta cementificazione, ai disastri naturali prodotti dalla trasformazione violenta e indiscriminata dei territori, e ovviamente al surriscaldamento globale. La chiave ecologica è per noi quella che permette di portare una critica radicale al rapporto tra sistema produttivo e salute, oltre l’emergenza pandemica.

D’altra parte, non “siamo sulla stessa barca” per quanto riguarda le responsabilità dello sfruttamento ambientale e dei disastri socio-ecologici in cui siamo direttamente immersi.  La stragrande maggioranza della popolazione globale non ha giocato alcun ruolo storico nella devastazione del pianeta, anzi: si tratta proprio della fetta che sta pagando – e con ogni probabilità continuerà a pagare – più di tutti i danni della crisi climatica e ambientale nella quale siamo immersǝ. Riteniamo quindi necessario ribadire quanto la responsabilità non sia equamente distribuita tra la popolazione umana ma, al contrario, sia prerogativa di pochi a scapito di molti. Alla base della crisi ecologica globale e dell’intensificazione di disastri socio-ecologici attuali vi è una precisa idea di sfruttamento e di accumulazione promossa e promulgata dal sistema capitalista.

Industria Agroalimentare

A questo punto, è importante sottolineare come la stessa diffusione del virus Sars-CoV-2 sia strettamente legata a tale disequilibrio. Oggi è ormai provato (ma è da molti anni che epidemiologi, medici e virologi ci mettono in guardia) che l’attuale epidemia sia stata favorita da una gestione rapace e scellerata delle risorse, soprattutto in ambito agroalimentare. Questo ha notevolmente aumentato le probabilità che un virus presente in una specie animale si trasmetta all’uomo: si tratta del fenomeno che abbiamo imparato a conoscere con il nome di spillover.[3]

L’attuale sistema di produzione e distribuzione alimentare, oltre a devastare ogni anno porzioni sempre maggiori delle poche aree rimaste incontaminate dall’attività umana, è inoltre un vero e proprio catalizzatore di epidemie, oltre che una fonte sempre più comune della cattiva salute delle persone. Per capire come questo sia possibile, bisogna considerare le due modalità produttive su cui si basa l’agribusiness: le monoculture e gli allevamenti intensivi.[4]

Le prime dedicano spazi sempre maggiori alla coltivazione di singole specie vegetali, con l’obiettivo di massimizzare i raccolti, e quindi i profitti, di grandi aziende agricole. Tuttavia, questo sistema indebolisce notevolmente i sistemi di difesa delle piante, che si trovano prive dell’ecosistema variegato e sinergico che in natura serve loro da barriera protettiva contro eventuali patogeni. L’agroindustria, per compensare gli effetti nefasti delle malattie e dell’impoverimento del suolo, fa quindi un uso sempre più massiccio e incrociato di pesticidi e fertilizzanti chimici; questi sono però riscontrabili in dosi sempre più tossiche nei cibi di cui ci nutriamo ogni giorno, oltre che nel suolo e nelle falde acquifere. Inoltre, per sottostare agli standard sempre più irraggiungibili dell’agroindustria, sempre più contadini e contadine sono costrettǝ a lasciare le proprie terre e gettare via il frutto del proprio lavoro. Al contempo, sempre più persone si ritrovano a rifornirsi nei discount senza nessuna garanzia sui prodotti, e correndo così il rischio di incorrere in gravi squilibri alimentari. La prima contraddizione è dunque evidente: per produrre il cibo che mangiamo sfruttiamo i lavoratori e avveleniamo l’ambiente, e lo stesso cibo prodotto avvelena noi.

Un’ulteriore contraddizione emerge analizzando la seconda modalità fondamentale dell’agribusiness: gli allevamenti intensivi. Essa è strettamente collegata alla prima in quanto gran parte delle monoculture industriali sono destinate alla produzione di mangimi animali. Ma gli allevamenti intensivi hanno un ruolo fondamentale nella minaccia ecologica alla nostra salute anche per altre ragioni: in primo luogo, gli spazi ristretti, affollati e malsani indeboliscono inevitabilmente le difese degli animali che vi sono costretti a vivere, esponendoli al rischio di contrarre facilmente malattie e di trasmetterle rapidamente ai propri simili; inoltre, la doppia vicinanza ad aree recentemente deforestate e agli ambienti umani aumentano esponenzialmente la probabilità che avvengano spillover: da una parte, il salto di specie dei patogeni da animali selvatici a quelli domestici; dall’altra, la modificazione di questi stessi patogeni che li rende trasmissibili dagli animali domestici agli umani che con essi entrano in contatto. L’attuale pandemia ha con ogni probabilità origini analoghe, e molte altre si sono sviluppate in questo modo e potranno svilupparsi in futuro.

È quindi evidente che l’attuale sistema produttivo non può essere conciliabile con la salute umana e ambientale; eppure continua ad essere alimentato e difeso anche dall’Unione Europea, che fonda la propria retorica sull’adozione di misure ambientali e produttive più “green”, ma che di fatto non vanno a intaccare il sistema alle sue basi.[5] A noi pare invece urgente la necessità di cambiare radicalmente il sistema produttivo vigente e abbracciare visioni e pratiche compatibili con la vita umana e dell’ecosistema di cui questa fa indissolubilmente parte.

L’agroecologia si sta affermando sempre più come un valido modello alternativo: essa pone l’accento sul recupero delle pratiche tradizionali, sviluppate dalle comunità contadine nel corso di rapporti centenari con la loro terra, ma anche su un uso bilanciato delle risorse e delle tecniche che indubbiamente hanno migliorato la pratica agricola. Inoltre, e in netto contrasto con l’avanzare delle grandi industrie agroalimentari, l’approccio agroecologico insiste sulla varietà di realtà agricole di piccole e medie dimensioni. Queste si pongono in un rapporto di interdipendenza e scambio con il territorio rurale e cittadino: da una parte, produttori e produttrici non dovrebbero stare al passo con i ritmi di un mercato globale, bensì potrebbero concentrarsi sulle esigenze e le possibilità del mercato locale; dall’altra, consumatori e consumatrici avrebbero accesso a cibi prodotti localmente, più sani, meno processati, e soprattutto frutto di un lavoro che non contempla lo sfruttamento di braccianti spesso sottopagati e non tutelati per garantire il profitto di grandi aziende. Crediamo che tali politiche agro-culturali, basate sul rispetto della terra e di lavoratori e lavoratrici, siano possibili: queste garantirebbero un’alimentazione più sana a tuttǝ, aumentando le risposte immunitarie dei nostri corpi esposti al virus.

Ma l’attuale sistema produttivo non produce cattiva salute solo attraverso i prodotti agricoli: è ormai un fatto risaputo che l’inquinamento di origine industriale aumenta l’incidenza di malattie all’apparato respiratorio, cancro e altre patologie, mietendo vittime ogni anno in tutto il mondo. Ma c’è di più: numerosi studi hanno osservato una maggiore virulenza e una maggiore facilità di diffusione del virus nelle aree colpite da livelli di inquinamento atmosferico più elevati,[6] che corrispondono ad aree con un più alto tasso di industrializzazione. Da tempo, infatti, la comunità scientifica mette in guardia sul rischio che – in un pianeta contaminato e globalizzato – la diffusione di virus possa essere sempre più frequente e rapida. In altre parole, il degrado ambientale sarebbe la causa principale dell’accelerazione della circolazione dei patogeni nell’era neoliberale.[7]

Trasporti e inquinamento

Come è chiaro ormai da mesi, quello del trasporto pubblico locale (da ora in avanti tpl) non può che essere inteso come un nodo di gestione problematico nonché come un pericolo per quanto riguarda la diffusione dei contagi da Covid. Con l’inizio dell’autunno, autobus, metropolitane e tram cittadini sono infatti tornati ad affollarsi in concomitanza con l’inizio delle scuole e la ripresa delle attività lavorative. Gli assembramenti che si sono venuti a creare intorno alle fermate degli autobus e il sovraccarico all’interno di essi è stato sotto gli occhi di tuttǝ e spesso – e fortunatamente – denunciato soprattutto dai giornali locali. Ciò era semplicemente inevitabile: si pensi a tuttǝ gli studenti e le studentesse che si spostano sui mezzi per raggiungere gli istituti scolastici o a coloro che per recarsi sul luogo di lavoro non possono permettersi di spostarsi con altri mezzi e tantomeno in auto anche per chi dovesse possederla, a causa ad esempio dei costi di mantenimento del mezzo, del rifornimento o anche solo delle limitazioni ai parcheggi e agli ingressi nei centri delle città.

Tale problematicità è stata affrontata di recente da parte del governo, nella persona del ministro della salute Speranza, con la semplice considerazione che andrebbero favoriti gli ingressi scaglionati a scuola e lo smart working. Siamo consapevoli che questa non possa essere la soluzione. Per quanto riguarda la scuola, infatti, è inutile garantire il distanziamento in aula, favorito magari dai famosi banchi a rotelle, se poi per giungervi gli alunni sono stipati in autobus stracolmi di gente; e non si può neanche pensare alla Dad come soluzione a tale criticità: se da un lato, come già accennato, rivela un’impossibilità per alcuni di accedervi, dall’altro comunque l’apprendimento a distanza è limitativo di quella che è l’esperienza scolastica nel suo insieme e nel suo ruolo formativo. Per quanto riguarda uffici e aziende, abbiamo già visto come in questo caso la priorità del governo, allineata con gli interessi del settore economico in generale e di Confindustria più nello specifico, sia quella di limitare il più possibile il calo della produttività e non quello di tutelare la sicurezza di lavoratori e lavoratrici.

Quello che crediamo è che se non è accettabile pensare alla Dad come soluzione per la formazione scolastica e non è possibile garantire lo smart working per tuttǝ (e ciò non è chiaramente possibile), e non è possibile fermare la produzione nei diversi settori (e ciò non è volutamente possibile), allora è necessario potenziare il tpl per garantirne un accesso in sicurezza a tuttǝ coloro che per le ragioni più diversificate hanno necessità di farvi ricorso.

Tuttavia, abbiamo visto che nonostante le promesse dei governatori o delle giunte comunali stesse, le uniche misure finora prese hanno riguardato la diminuzione del coefficiente di riempimento del trasporto pubblico di linea urbano, extraurbano e ferroviario quando non la soppressione di quelle fermate giudicate rischiose per gli assembramenti che favoriscono.

Ciò è inaccettabile, perché se da un lato e di nuovo favorisce sempre più le differenze di classe, dall’altro non tiene in primaria considerazione la tutela della salute dei cittadini e delle cittadine più o meno giovani. La soluzione però c’è ed è semplice: stanziare nuovi fondi governativi o regionali per potenziare le corse e assumere il personale necessario. Il fatto che anche nel settore dei tpl solo negli ultimi dieci anni in Italia siano stati tagliati 10 miliardi di euro di fondi è però emblematico di quanto tale criticità non sia prioritaria per chi ci governa e dimostra come questa pandemia stia facendo emergere con forza i problemi strutturali dei nostri sistemi socio-economici.

Tali problemi si intersecano a vicenda e si rafforzano vicendevolmente: lavoro, salute, crisi ecologica e climatica. Spostare le nostre società verso un modello di trasporto basato sul pubblico piuttosto che sul privato è uno dei nodi centrali per quanto riguarda la possibilità di risolvere la crisi climatica ed ecologica in corso. Come collettivo di Ecologia politica crediamo con forza che questa pandemia dimostri come per affrontare questa questione in termini pratici sia stato fatto quasi nulla, con il taglio di fondi e servizi destinati al trasporto pubblico. Pensiamo ai miliardi di euro di risorse pubbliche sprecati (e che vogliono sprecare) nella TAV, i quali potevano essere impiegati in quella che è una vera necessità: un trasporto pubblico efficiente e capillare all’interno delle città e tra i centri abitati (di tutte le densità abitative) ed accessibile a tutte e tutti.

[1] Per un approfondimento: https://espresso.repubblica.it/plus/articoli/2020/05/04/news/continuiamo-a-fare-armi-ma-siamo-senza-respiratori-per-il-2020-oltre-26-miliardi-in-spese-militari-1.347903.

[2] Per un approfondimento della situazione in Piemonte: https://www.infoaut.org/precariato-sociale/piemonte-in-lockdown-le-responsabilita-di-cirio?fbclid=IwAR152SOU-j3Faz9ZEPqMwy-RDZXapLD1o-7DHPwGJiFQ1Atagi-PxVcenfs.

[3] Vedi D. Quammen, Spillover. L’evoluzione delle pandemie, Milano, Adelphi, 2017 (20121).

[4] Per approfondire, vedi R. Wallace, Big Farms Make Big Flu: Dispatches on Infectious Disease, Agribusiness, and the Nature of Science, Monthly Review Press, 2016.

[5] Per approfondire vedi: https://www.dinamopress.it/news/europa-vince-lagribusiness-voto-finale-sulla-pac-politica-agricola-comune/.

[6] Fin dai primi mesi di diffusione globale della pandemia diverse ricerche hanno testimoniato di una non irrilevante correlazione tra inquinamento atmosferico e diffusione dei contagi. Per una breve rassegna degli studi al riguardo: https://www.ilfattoquotidiano.it/2020/04/10/coronavirus-lo-studio-di-harvard-smog-legato-ad-aumento-tasso-di-mortalita-per-covid/5766682.

[7] Vedi https://monthlyreview.org/2020/04/01/covid-19-and-circuits-of-capital/; per una traduzione e un’analisi del saggio si rimanda a : https://www.infoaut.org/global-crisis/covid-19-e-i-circuiti-del-capitale e https://contropiano.org/interventi/2020/04/06/covid-19-e-i-circuiti-del-capitale-0126307.